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Ancora sul dolore del parto

5 marzo 2012

Le antropologie del sapere medico hanno mostrato come la storia della medicina si intrecci con quelle delle medicine popolari così vicine al pensiero religioso come lo erano e lo sono gli stessi saperi naturalistici tradizionali. La stessa esperienza individuale del ‘corpo proprio’, ha un ruolo fondante nel processo di formazione del medico, che in tal modo è più vicino al guaritore e allo sciamano di quanto non si creda, come hanno mostrato recenti lavori etnografici e antropologici sul ‘paradosso del medico malato’(Emmanuelle Godeau). Nonostante i suoi sforzi secolari la medicina occidentale non è riuscita ad oggettivare il corpo: la carne si ribella a ogni tentativo di reificazione, fornendo immagini eloquenti e incontestabili di questo rifiuto[1].

Qualche giorno fa Amrita pubblicava un post in risposta a un link che gira per ora su facebook. Dopo aver argomentato la sua posizione contro l’equazione amore=dolore suggeriva la lettura di uno studio scientifico sul dolore del parto. Concordo con ogni singola parola che scrive Amrita, non è il dolore a dare la cifra dell’amore che prova una madre per il figlio, e trovo anche io urgente una riflessione su come la nostra cultura ci imponga valutazioni prestazionistiche sul dolore e sull’amore, ma alcune parti del citato studio sulla percezione del dolore durante un parto vaginale senza analgesia mi hanno lasciata molto perplessa e volevo confrontarmi con voi sull’ultimo paragrafo citato nel quale secondo me passano delle idee personali degli autori poco riscontrabili dall’osservazione della realtà e della complessità del sistema parto. C’è tutta una tradizione scientifica post Bowlby che attribuisce all’imprinting un’importanza che nei primati,  animali molto più complessi delle anatre o delle capre sulle quali sono stati fatti i più famosi studi sull’imprinting e sul bonding, non ha.

Più leggo certi studi scientifici più mi rendo conto che la scienza possa essere un modo perverso di infiocchettare attraverso numeri, cifre ed un finto linguaggio neutrale le proprie convinzioni e i propri retaggi culturali. Come ho scritto altrove, del messaggio che gira su facebook mi saltano agli occhi quelle cifre sulle quali è impostata la questione dell’amore e del dolore, 4,5 Vas; 5,7 Vas: 20 ossa. Ci sono ben tre numeri per nominare l’incommensurabile, per espropriarci della forza vitale che anima le pulsioni più elementari. E per pretendere di rendere oggettivo quello che oggettivo non è, ossia la percezione del dolore. Presso le società tradizionali la madre non contava i figli a tavola, che venivano chiamati per nome uno dopo l’altro in ordine di età, il pastore non contava le pecore, che erano tante, neanche il contadino misurava la terra, sebbene ne conoscesse con precisione i confini. Si evitava il calcolo diretto nella sfera domestica e si lasciavano i conti al mercato. Eppure, un pastore sapeva benissimo se mancava un agnello senza dovere contare tutto il gregge. Quando si inizia a conteggiare con precisione, la forza vitale scompare e per noi donne cedere a questa mentalità quantitativa diffusa dal sapere tecnico-scientifico significa allontanarci sideralmente dalla nostra carne e, in definitiva, da noi stesse.

Il parto, con tutta la sua dose di dolore, più o meno integrato nel proprio vissuto personale e sociale, più o meno accettato dalla singola madre o dall’intera cultura, sostanzialmente dice alla donna di ‘essere’, non di ‘fare’. Di accogliere perché capace, non di agire perché potente. Di lasciarsi attraversare dall’ineluttabilità di un processo vitale e indipendente dalla sua volontà. Innescare processi ideologici, ricamarci i propri pensieri e le proprie convinzioni sopra può portare solo a complicare l’evento, rischiando di caricarlo di aspettative proprie o indotte, quelle forse sì, responsabili di risposte materne anche negative, più dell’esperienza del parto stesso. Sforzarsi di trovare ragioni psicologiche e affettive al dolore del parto a me fa storcere il naso. Io credo che quest’affermazione:

Gli alti livelli di endorfine prodotte e la totale apertura della propria parte emozionale profonda creata dal dolore attivano fortemente il sistema limbico del cervello primale, legato alle funzioni affettive e mettono la donna in uno stato così detto sensitivo al momento della nascita del bambino. È completamente aperta e orientata sul bambino, con tutti i suoi sensi e istinti e può accoglierlo dentro di sé, nella sua parte vegetativa istintuale, simile all’annidamento che avviene all’inizio della gravidanza. Il tipo di legame che si crea a questo livello è incuneato negli strati più intimi ed ha caratteristica istintuale e biologica indelebile.

sia più un’opinione personale scaturita da una certa interpretazione parziale della cosiddetta teoria dell’attaccamento materno piuttosto che frutto di osservazione scientifica. I medici, gli psicologi, ma anche i sociologi, gli antropologi, i linguisti, i filologi, i fisici, i geologi… dovrebbero avere il coraggio di fare ricerca scientifica basandosi sulle evidenze e non sulle tradizioni scientifiche.

Se fosse davvero come si sostiene in questa parte dello studio sulle funzioni del dolore in travaglio di parto, ossia se fosse veramente il dolore (solo il dolore!) a renderci così ricettive e innamorate nei confronti dei bambini, non si spiegherebbero gli infanticidi e gli abbandoni così frequenti tra i primati e tra le società tribali, dove non esiste né cesareo né epidurale. Perfino tra le scimmie antropomorfe si osservano comportamenti di negligenza nei confronti del cucciolo appena nato da parte della madre che lo ha partorito secondo natura! Indagini sul campo hanno dimostrato che non sempre le mammifere mostrano una dedizione automatica e totale subito dopo il parto e che l’ “istinto materno” si dispiega via via, grazie alla partecipazione dei piccoli. A fare la differenza tra un attaccamento ‘sicuro’ e uno ‘non sicuro’ non sarebbe dunque l’esperienza del dolore fisiologico in sé, ma gli esempi di cura a cui è stata esposta la madre lungo tutta la sua vita e i momenti successivi al parto. In quei momenti una madre può provare un piacere sinestetico che non ha eguali: attraverso ognuno dei suoi sensi conosce il bambino che prima sentiva dentro la sua pelle, lo guarda negli occhi, quegli occhi così penetranti che la abbagliano, ne sente l’odore della pelle che profuma di liquido amniotico, lo tocca, sempre attraverso la pelle e ne esplora i vellutati confini, ascolta la sua voce per la prima volta…  e queste esperienze sinestetiche sì che attivano fortemente il sistema limbico del cervello primale, legato alle funzioni affettive! L’antropologa Wenda Trevathan, che studia la nascita in diverse culture che noi definiremmo primitive, constatò con sorpresa che la reazione immediata di gioia subito dopo il parto non è la norma e che è più frequente che ci sia un periodo d’indifferenza mentre la madre si riprende dalle fatiche del parto. Che madri snaturate, giudicheremmo noi dall’alto della nostra cultura! Per contro, io ho partorito col taglio cesareo eppure la scarica ormonale che ha innescato la lattazione non è stata compromessa, ma perché le ore immediatamente successive all’intervento hanno visto me e il mio bambino a stretto contatto: è stato il lento e graduale adattamento l’uno all’altro, facilitato dalla magia dell’allattamento, e non la modalità della nascita ad influire sensibilmente sul rapporto tra me e mio figlio e, se non avessi fatto ricorso a farmaci antalgici che mi rendessero sopportabile il periodo post operatorio, con la ferita che mi doleva e le contrazioni di un utero con un taglio fresco e sanguinante che partivano ad ogni poppata, difficilmente avrei potuto occuparmi di mio figlio in prima persona e quindi rendere possibile quella luna di latte che ha fatto sì che ci attaccassimo l’uno all’altra. Il comportamento di cura va costantemente elaborato, rafforzato e conservato, direi curato giorno per giorno, mese dopo mese e anno dopo anno, non è qualcosa che si innesca magicamente con un bel parto naturale!

Questo non significa che tutte le modalità di nascita vanno bene, noi donne dobbiamo lottare perché attraverso i nostri corpi non si perpetuino più forme di violenza sociale nelle quali sono sempre altri, e spesso uomini, che decidono come dobbiamo dare alla luce i nostri figli e perché. Ma affinché il cambiamento di mentalità avvenga, dobbiamo prendere coscienza del fatto che la nascita valica il confine dell’esperienza individuale per assumere pregnanza simbolica, significato pubblico e valenza politica.

La mia posizione intorno alla medicalizzazione del corpo materno, ossia “applicare le stesse procedure diagnostiche e terapeutiche usate per le poche donne con problemi di salute alle molte donne sane”, è sicuramente critica, perché ritengo la medicalizzazione del parto uno strumento di sapere e di potere che la modernità secolarizzata e tecnologica applica per esercitare il controllo sociale sull’attività riproduttiva della donna, catalogabile alla stessa stregua dei dispositivi utilizzati per secoli dalle gerarchie religiose per ricondurre la capacità generativa femminile entro forme istituzionalmente consentite. Ma un atteggiamento scettico nei confronti della medicalizzazione non autorizza secondo me a prese di posizione ideologiche o a spiegazioni semplicistiche sull’utilità affettiva del dolore del parto.

Nella nostra cultura ogni nuovo nato sperimenta per la prima volta che il potere sociale al quale siamo assoggettati come individui è fondato sulla separazione e sul larvato senso di lutto materno che accompagna il venire al mondo in ospedale. Ogni singola nascita in Occidente serve a riprodurre questa forma di potere oppressivo attraverso una

brusca, talvolta brutale separazione tra la donna e il suo nuovo nato; in maniera rapida, asettica, apparentemente necessaria, apparentemente indolore, solo perché tutto il dolore è spostato sulla fisiologia del parto, momento espiatorio per ogni dolore, anche quelli dovuti all’organizzazione sociale. Al taglio del cordone ombelicale corrisponde qui un taglio sociale e simbolico, difficilmente riscontrabile in culture non europee e non industriali. Questa separazione è attribuita alle necessità dell’organizzazione ospedaliera. Ma è una falsa legittimazione perché ci sono ospedali dove viene praticato il rooming-in e in altre parti del mondo la prassi abituale è quella di lasciare il bambino vicino alla madre, anche nel suo letto e non per mancanza di spazio.[…]Si crea nel bambino e nella madre una percezione di solitudine e di esperienza dell’altro come assente. Per il bambino i primi processi cognitivi e affettivi nascono dalla solitudine. […] Le conseguenze  delle separazione precoce sono ancora tutte da scoprire o forse sono già visibili ma non vengono attribuite a queste esperienze primarie.[2]

Sforzarsi di trovare spiegazioni socio-affettive al dolore del parto mi indigna come ci indignò tempo fa il dibattito sull’utilità dell’orgasmo femminile e secondo me fa parte dello stesso percorso che conduce a separarci prima dai nostri corpi e poi dallo scoprire la relazione con gli altri, a partire dall’esperienza cruciale che è la nascita. Bisogna stare attenti alle complicate interazioni tra geni, tessuti, ghiandole, esperienze passate nonché ai richiami sensoriali espressi dai neonati stessi e da tutti gli altri individui vicini alla donna che partorisce. Comportamenti complessi come quelli di cura, soprattutto se legati a emozioni ancora più complesse come l’amore, non sono mai determinati solo dalla fisiologia o solo dall’ambiente.



[1] Pizza G., Corpi e Antropologie: l’irriducibile naturalezza della cultura, in Apertura http://www.aperture-rivista.it/public/upload/Pizza3.pdf

[2] Maher V, 1990, Il latte materno, i condizionamenti culturali di un comportamento, Rosemberg e Seller:82

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